Il tartufo ha sempre sollecitato fantasia e immaginazione, a causa della sua natura misteriosa.
Già nel 3000 a.C. i Babilonesi si procacciavano questi misteriosi doni della natura negli arenili dell’Asia Minore.
Si trattava probabilmente della Tarfezia Leonis, un tipo di tartufo di modesta commestibilità e che ancora oggi è presente in quelle zone.
Nel 2600 a.C. il celebre faraone Cheope andava ghiotto per i tartufi cotti nel grasso d’oca, e sembra che 1000 anni più tardi persino Giacobbe, a quanto racconta il vecchio testamento, conoscesse e apprezzasse il prezioso tubero.
Teofrasto
Teofrasto di Ereso, discepolo di Aristotele, si occupò in uno dei suoi numerosi studi sulla botanica anche del tartufo definendolo nel suo Historia Plantarum come un ornamento prezioso per la tavola, naturalmente privo di radici e frutto della combinazione della pioggia col tuono.
Questo è il primo accenno alla natura leggendaria, occulta ed esoterica di questo fungo.
Sempre intorno a IV secolo a.C, le fonti ci confermano un concorso gastronomico ad Atene, vinto da una pietanza a base di tartufo: il pasticcio tartufato alla chilomene.
Solo un paio di secoli più tardi il greco Claudio Galeno (iniziatore della medicina sistematica) sosteneva, come Pitagora prima di lui, non solo le proprietà nutrienti del fungo ma anche quelle di “disporre della voluttà“: nasceva così l’idea, ancor oggi diffusa, che il tartufo abbia proprietà afrodisiache.
Galeno
Nell’età repubblicana di Roma il tartufo sembra scomparire dalle tavole, per poi riproporsi in età imperiale non solo sulle tavole degli strati sociali più alti ma anche sulle mense dei benestanti.
E’ in questo periodo che il profumo marcato e la sua crescita ancora misteriosa rafforzano l’alone esoterico del tartufo, d’ora in poi dedicato alla dea dell’amore Venere e somministrato di conseguenza ai pazienti afflitti da impotenza.
Lucio Licinio Lucullo, console di Roma noto più per l’esagerazione dei suoi banchetti più che per le imprese militari, era un grande estimatore di tartufi e come lui Apicio, un celebre bongustaio dell’epoca noto per i suoi ricettari apprezzatissimi dai patrizi romani.
In uno dei suoi libri riporta più di una ricetta a base di tartufo:
“Raschia i tartufi, salali, infilzali con uno stecco e arrostiscili i, a parte metti in un tegame olio, liquame, un misto di trito di pesce, erbe, aceto, mosto, vino, miele e pepe. Quando bolle, addensa con amido e versa sui tartufi.“
Può sembrare strano ma i tartufi che venivano consumati a Roma non erano quelli bianchi e neri di cui ci cibiamo oggi. Infatti i romani importavano delle terfezie di qualità modesta dall’ Africa, come ci conferma lo storico e naturalista Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia:
“…massimo miracolo sono la nascita e la vita di questo tubero che cresce isolato e circondato di sola terra, la secca e fruttifera terra della lodatissima Africa…”
Plinio
Nei primi secoli del Cristianesimo nemmeno un incorruttibile Ambrogio di Milano potette resistere alle tentazioni della gola quando ricevette in dono dei tartufi dal vescovo di Treviri.
Nei secoli oscuri del Medioevo, dove tutto era argomento di “peccato”, il tartufo scomparve gradatamente dalle mense, a causa dell’ipotesi di una sua natura demoniaca, ma tra il 1100 e il 1200 il prezioso tubero ricomparve sulle tavole, ancor più apprezzato: non erano più le terfezie provenienti dall’Africa, ma i veri e propri tartufi delle nostre terre apprezzati perfino dal sommo poeta Petrarca:
“E non pur quel che s’apre a noi da fare, / le rive e i colli, di fioretti adorna, / ma dentro, dove giammai non s’aggiorna, / gravida fa di sé il terrestre umore; / onde tal frutto e simile si colga…”
Petrarca
Con il Rinascimento il tartufo ebbe la sua massima diffusione, quando in ogni banchetto rispettabile non si poteva ammettere l’assenza del fungo, elaborato in ricercate ricette dai mastri cuochi dell’epoca.
Nel 1502 ad Acqualagna i notabili del luogo donarono dei tartufi neri a Lucrezia Borgia, figlia del Papa libertino Alessandro VI appassionata fin dalla giovinezza del fungo per via della sua natura misteriosa.
Persino Papa Giulio VI (colui che commissionò la cappella Sistina a Michelangelo) ricevette in dono dei tartufi bianchi, dimostrandone l’apprezzamento.
Allo stesso modo Caterina de Medici, trasferitasi in Francia per congiungersi a Enrico VI, rafforzò l’uso del tartufo in cucina, poiché le ricordava le battute di caccia al cinghiale nella sua Toscana, quando vedeva questo animale selvatico fermare improvvisamente la corsa attratto dall’aroma del tartufo.
Caterina
Studi botanici
E’ sempre nel rinascimento che ha inizio un indagine scientifica sulle origini del tartufo, per quanto le spiegazioni restino talvolta fantasiose.
Nel 1564 compare l’Opusculum de tuberibus, il primo libro mai scritto sul nostro fungo ad opera di Alfonso Ceciarelli, seguito da un opera di Giacomo Castelveltro intitolata “Breve racconto di tutte le radici, di tutte le erbe e di tutti i frutti che crudi o cotti in Italia si mangiano” dove compare una sezione dedicata al tartufo.
Tra il 1700 e il 1800 comincia il vero e proprio approccio scientifico in materia, a partire dalla supposizione dell’inglese Tournefort che i funghi si servissero di spore per riprodursi.
Nel 1711 Geoffrey sostenne che tali spore fossero contenute in piccole celle definite aschi, e solo due decenni più tardi l’italiano Micheli riuscì a definire esattamente il numero di Aschi contenuti nei principali tipi di tartufo.
La buona strada intrapresa da questi studiosi fu interrotta da Turpin, il quale sosteneva che le spore fossero esse stesse dei piccoli tartufi che, unendosi tra loro, dessero origine al tubero.
Altra gaffe fu quella di De Bornholze che nel 1827 sostenne che il tartufo rappresentasse la via di mezzo tra il mondo vegetale e quello animale, come anche la sparò grossa Revel sostenendo che il fungo fosse originato dalla puntura di una particolare mosca sulle radici delle querce.
Fu in questo clima fantasioso emerse la figura di Carlo Vittadini, autore nel 1831 della Monographia Tuberacearum, un lavoro di assoluto stampo scientifico in cui vennero descritte buona parte dei tartufi esistenti, che tutt’ora portano il nome di questo scienziato.
Nonostante l’interesse scientifico (il Mantegazza lo definì “un mistero poetico del mondo gastronomico“) il tartufo continuò ad apparire nel mondo della letteratura, come nel poema Tuber Terrae di Bernardo Vigo. Nella letteratura come nella storia, il tartufo presenziò persino al Congresso di Vienna del 1815, essendo Napoleone un noto amatore del tubero.
Oggi finalmente il tartufo ha trovato una sua identità botanica, nel regno dei Funghi, famiglia Tuberacee e divisione Ascomiceti, ma alcuni aspetti del suo essere restano ancora da chiarire, perpetrando l’alone misterioso che avvolge il prezioso frutto della terra.